Il pragmatismo settecentesco: I portaroli

Questa tela presenta in primo piano due giovanissimi portaroli seduti sopra delle ceste con in mano delle carte. Le monete presenti in una delle due gerle  ci inducono a pensare possa trattarsi di gioco d’azzardo. Nello sfondo è presente una piazza – probabilmente una città lombarda (Brescia o Piacenza) – con un vicolo che conduce ad una chiesa dai lineamenti Barocchi.
E’ raffigurata la tipica realtà indigente, squattrinata, di basso rango che amava far emergere, a chi osservava le sue opere, il “Pitocchetto” (da “pitocchio” cioè miserabile, indigente), così era chiamato per i soggetti trattati, il pittore lombardo Giacomo Antonio Melchiorre Ceruti. Schietto, senza scrupoli, sincero, Ceruti utilizzava l’arte per denunciare le situazioni in cui vivevano le classi meno abbienti. Per raffigurare questo, utilizzava uno stile verista dai colori bruni ed aspri, che rifletteva lo stato d’animo dei soggetti dipinti (mendicanti, lavoratori, realtà periferiche, storpi). Fu un’arte per il popolo il cui fine era la “denuncia”, anticipò così il gusto artistico che fiorirà in Francia nell’ottocento con Gustave Courbet: il Realismo.


fig. 1

Ma a rendere curiosa questa tela, dalla composizione semplice, non è il tema affrontato: il gioco d’azzardo tra minori o lo sfruttamento lavorativo giovanile, bensì i dettagli che compaiono sullo sfondo e che, i più maliziosi astanti, magari avranno già notato: due cani che si accoppiano ed un cavallo con il membro maschile in erezione.
Per capire il motivo che ha spinto Ceruti ad inserire cotanta sgarbatezza in questa tela, bisogna tornare alle origini della “pittura di genere”.


fig. 2

La “pittura di genere” nasce a Bologna alla fine del XVI secolo, con la Scuola dei Carracci, che applicarono le direttive trattate dal conterraneo cardinale Gabriele Paleotti nel “Discorso intorno alle immagini sacre e profane” (1582), il quale sollecitava a creare dipinti comunicativi e persuasivi.
Nei Paesi Bassi a dire il vero si sviluppò qualche anno prima grazie alla borghesia mercantile sempre più dominante in quei territori. Le committenze dunque richiedevano raffigurazioni di vita quotidiana, soprattutto il tema del lavoro e la rappresentazione delle classi sociali meno vagliate dai pittori fino a quel momento.
Come la pittura di religione, anche quella di genere ha un suo sviluppo e una propria evoluzione.
Come detto in Italia comincia con “l’Accademia degli Incamminati” fondata dalla famiglia Carracci (Ludovico, Annibale ed Agostino) nel 1590, il loro obiettivo era la fedeltà alla verità delle cose e alla natura. Annibale aprì le porte a questa nuova pittura, fondendo l’ideale classico con il naturalismo: i santi da lui dipinti erano umani, coinvolgevano lo spettatore, e tutti i personaggi avevano una loro coscienza.
Da questa innovazione artistica nasce la “pittura di genere”, che grazie alle commissioni private si diffonderà in modo repentino e sarà la più rilevante alternativa alla pittura ufficiale.
Questa nuova visione verista dell’arte è assorbita e ben interpretata dal Caravaggio, che la diffuse in Lombardia, divenendo un esempio per tutte le generazioni successive, questo fu un passo fondamentale per l’emancipazione della pittura dai precetti rinascimentali.
La rappresentazione della quotidianità aveva quindi preso piede nel XVII secolo, prevalentemente in Emilia e in Lombardia dove le commissioni aumentavano congiuntamente all’accrescimento del collezionismo privato. Questo incremento di richieste comportò un maggiore eclettismo del pittore, stimolandolo a realizzare dipinti sempre più pragmatici, dettagliati e crudi.
Il Seicento fu dunque il trampolino di lancio per queste nuove iconografie che in seguito, nel Settecento, cambiarono finalità: dalla raffigurazione minuziosa del quotidiano ad una rappresentazione documentaristica della realtà.
Nel cinquecento, con il periodo manierista, il pittore raggiunse una certa emancipazione espressiva,  nel seicento conquistò la libertà iconografica, e nel settecento applicò entrambe le “conquiste” giungendo quindi ad una pittura realistica, licenziosa, eclettica.

Emblema di quanto enunciato è l’arte di Giacomo Ceruti: il fine documentaristico si mischia ai dettagli triviali, come quelli presenti sullo sfondo di quest’opera, tali “licenze poetiche” erano ormai consuete: i dipinti religiosi e mitologici non avevano più l’egemonia del passato,  con l’avanzamento dell’assolutismo e la successiva rivoluzione, allettava di più la pittura storica e satirica che raffigurasse la realtà politica, piuttosto dell’utopico idillio Barocco.
Per tale nuova redenzione iconografica e per la libertà di pensiero che si stava riversando con le nascenti idee illuministe, da questo momento in poi, è spesso possibile trovare dettagli audaci e provocatori nelle tele.
Questa concezione documentaristica dell’arte, fu la base della “poetica artistica” dell’inquieto pittore ottocentesco Jean-Louis André Théodore Géricault, che ripropose gli stessi concetti conquistati nel settecento, mescolandoli alla nuova sensibilità romantica.

In  conclusione posso affermare che Ceruti non fu un pittore come tanti, anche se può sembrare tale, è per certi versi un avanguardista. I dettagli di questa tela, non solo sono la dimostrazione di libertà espressiva e simbolo di degrado,  ma anche desiderio di provocazione. La stessa provocazione che aprì la strada alla satira illuminista.

fig. 1 Giacomo Antonio Melchiorre Ceruti, Pitocchetto, olio su tela, Collezione Privata, Brescia, 1724-1768 ca.
fig. 2
Dettagli sullo sfondo del dipinto.

Enrico Faggionato

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Nato a Vicenza il 18/05/1990 Laureato in Conservazione e gestione dei beni e delle attività culturali nel 2016 presso l'università, Ca'Foscari di Venezia.